Il suicidio nelle forze di polizia: come prevenire

I recenti e gravi atti suicidari registrati nelle Forze di Polizia Italiane, che in alcuni casi hanno coinvolto tragicamente anche la vita di terzi, ci spingono a fare una riflessione lucida ed equilibrata su un fenomeno così doloroso, cercando di affrontarlo in una prospettiva concreta
rivolta ad individuare gli strumenti di una possibile prevenzione, anziché ricorrere alla posticcia ricerca di capri espiatori. Innanzitutto proviamo ad avvicinarci alla realtà psicologica e sociale del fenomeno, ponendoci delle domande e cercando di dare in primis a noi stessi risposte autentiche.
L’interrogativo sulle ragioni del comportamento attraverso cui un individuo giunge a togliersi volontariamente la vita, trascinando non raramente altri nella spirale della propria morte,  è stato e rimane uno dei più grandi enigmi e delle più stimolanti sfide sia per coloro che si occupano di scienze biologiche, che per quanti si interessano di scienze umane.
La gente comune si chiede più semplicemente che cosa possa rendere l’individuo incapace di tenere sotto controllo quella che viene considerata la scelta più irrazionale che la mente umana possa decidere di compiere: sopprimere sé stessi, darsi la morte, rinunciare volontariamente al bene per eccellenza, la vita. L’estrema difficoltà che la maggior parte delle persone ha di pensare e confrontarsi con una realtà così difficile da accettare, ma al contempo assolutamente banale: la possibilità che ciascuno di noi ha di rinunciare volontariamente alla vita, è esemplificata dai numerosi eufemismi e sinonimi con cui viene appellato il suicidio.
Per la maggior  parte  delle persone, anche quando vivere non è più bello(semmai lo sia stato), è imperativo esistere ad ogni costo, accontentandosi magari di sopravvivere tra le sventure piccole e grandi che qualunque vita comporta, vuoi perché considerata virtù tipicamente umana o, forse più spesso, in quanto scelta obbligata a ragione di quella atavica angoscia che ci difende e ci fa arretrare di fronte all’ignoto, ad un aldilà ancora completamente inesplorato. Questo timore del luogo dal quale nessuno ritorna, che ha impedito a molti di noi di scegliere la morte – a causa del dolore della malattia, dell’ingiustizia della legge umana, della rabbia impotente di fronte al persecutore di turno, del rifiuto o del tradimento di chi amiamo, della colpa per ciò che non doveva essere fatto, della vergogna di fronte al pubblico ludibrio – facendoci restare aldiquà, può essere non infrequentemente superato, ed oltrepassato ad un punto tale che il deserto dell’esistere giunge a sovrastare la paura dell’ignoto, ed a farne varcare volontariamente la soglia.
Nessuno conosce così bene la concretezza di questa realtà quanto gli psichiatri, gli altri professionisti della salute mentale, il personale sanitario del soccorso pubblico e gli operatori delle Forze di Polizia. I medici tendono spesso ad evitare l’idea e l’esperienza emotiva  della morte pur essendo quest’ultima l’evento più certo e naturale dell’esistenza, ma anche il più prossimo alla loro professione. Una ragione di ciò si può trovare nei più profondi luoghi della scelta professionale dove spesso si annidano timori tanatofobici e nosofobici, con i relativi bisogni di onnipotenza e di proiezione sugli altri del male – malattia. Psichiatri e psicologi, specialmente quelli che lavorano con i pazienti più gravi, sono costretti quotidianamente a vivere con il fantasma della potenzialità suicidaria di chi hanno in cura e, spesso, si rispecchiano pericolosamente in quegli abissi di estrema sofferenza.
Ma anche le ragioni della scelta professionale dell’operatore di polizia possono essere complesse, ed a volte difficilmente permeabili all’esterno oltre che da egli stesso traducibili. La sete di individuazione e di superiorità; l’illusione di poter controllare la realtà, compresa quella intrapersonale; il bisogno di separare nettamente il bene dal male perpetrabile dall’uomo, per porre il negativo fuori da sé; il sogno di viversi come paladini della vita e del benessere altrui – interpretando una mitologia eroica  che  al passo dei tempi si aggiorna nelle sembianze pur rimanendo immutato il bisogno di alterità che la sottende –  possono trovare appagamento e realizzazione attraverso il ruolo di difensore della Legge: tutto questo appare estremamente rassicurante, oltre che affascinante.
Questo soggetto che deve fornire agli altri sicurezza non può, per definizione, che essere estremamente sicuro di sé, e cosa c’è di maggiormente ansiogeno dell’essere umano che attenta alla propria vita? Ansiogeno certamente per la gente comune, ma ancora di più per i suoi più diretti simili quando si tratta di operatori di polizia, perché ne fa vacillare il sentimento più o meno autentico, ma  indispensabile, di sicurezza.
E le stesse Istituzioni di cui essi sono parte tremano perché all’interno del mito, certamente in affanno ma mai messo in discussione, di essere una “famiglia”, sentono più o meno confusamente il dovere di proteggere i propri figli prima di quelli degli altri – non fosse altro per il fatto che i primi dovrebbero tutelare i secondi – e di fronte al suicidio di uno di loro si confrontano con il senso di colpa e di vergogna per non essere riusciti ad adempiere al loro primo mandato.
Noi riteniamo che questi ultimi sentimenti rappresentino l’elemento fondamentale che fino ad oggi ha determinato nel nostro Paese quella sorta di ritroso pudore rispetto all’argomento suicidio nelle Forze di Polizia che si registra al loro interno.
E poi, come succede in qualsiasi famiglia quando un figlio esce dal “seminato”, ci si interroga se sia il caso di parlarne  – visto che le altre non esternano simili difficoltà – e si rimane nel dubbio se ciò sia dovuto alla buona salute dei loro membri, o alla difficoltà ad ammetterne il malessere.
Ma con la Società intera che in questi ultimi anni è cambiata, e dove sono mutate le stesse fondamenta delle Istituzioni che si confrontano con cittadini ormai divenuti maggiorenni, non può non trasformarsi anche il rapporto tra le Forze di Polizia ed i loro “appartenenti”. Essi devono essere considerati e considerarsi non più figli minorenni per i quali il genitore assume di sé ogni incombenza, ma prole adulta e responsabile – innanzitutto di sé stessa – su cui semmai esercitare una matura supervisione.
Se entriamo in questo nuovo paradigma, anche le nebbie del senso di colpa irrazionale tenderanno a dileguarsi permettendo di guardare una realtà su cui tentare di agire concretamente, senza la semplicistica illusione di poterla dominare e la successiva, inevitabile, delusione del fallimento.
Pertanto riteniamo necessario muoversi in tale direzione, senza l’enfasi delle emozioni momentanee ed il clamore, ancor più effimero, di tanti notiziari che accompagnano i funerali degli operatori di polizia suicidi e, meno che mai, dell’assordante rumore del silenzio.
Il primo passo per individuare migliori strategie di prevenzione del suicidio nelle Forze di Polizia non può che essere quello di abbattere lo stigma che circonda il fenomeno, iniziando a percorrere le seguenti tappe:
1) Costituzione di un Osservatorio Nazionale presso il Ministero dell’Interno a cui debbono affluire tutti i dati relativi ai suicidi ed a i tentati suicidi occorsi nelle Forze di Polizia a competenza territoriale sia generale che locale;
2) Organizzazione di un Convegno Nazionale sul suicidio nelle Forze di Polizia riservato agli addetti ai lavori, al fine di predisporre un algoritmo unico per la rilevazione di tali eventi, in modo da raccogliere dati omologabili, tali da risultare idonei a sviluppare concrete strategie preventive, oltre che permettere la definizione di un primo quadro complessivo del fenomeno;
3) Previsione, nella formazione di base di tutti gli operatori di Polizia, di un modulo specificamente indirizzato all’informazione sul fenomeno; alla sensibilizzazione circa i segnali di sofferenza mentale, potenzialmente sintomatici di una progettualità autolesiva; alla demitizzazione circa l’ineluttabilità della riforma dal servizio per coloro che evidenziassero problematiche della sfera psichica, stimolando un rapporto collaborativo e reciprocamente fiducioso fra il personale e le figure professionali presenti nelle singole istituzioni di appartenenza deputate alla tutela della salute degli operatori;
4) Promozione di iniziative istituzionali ed extra-istituzionali volte a destigmatizzare il disagio ed il disturbo mentale nelle Forze di Polizia, attraverso la presa di consapevolezza della potenziale vulnerabilità di ciascuno di noi di fronte alla sofferenza psichica, delle ottime prospettive di cura e di recupero per la gran parte delle patologie mentali, la evoluzione culturale e delle prassi operative di competenza dei Sanitari delle Forze di Polizia, l’attivazione di progetti di automutuoaiuto dedicati.

Luigi Lucchetti, Presidente AIGESFOS e Felix B. Lecce, Vice presidente AIGESFOS