Lo stress traumatico nelle parole di chi lo ha vissuto sulla propria pelle

Più della illustrazione concettuale che abbiamo sopra presentato, riteniamo molto più pregnante e rappresentativo dei vissuti degli operatori di polizia coinvolti in eventi critici di servizio riportare questo straordinario resoconto di un poliziotto che ha voluto mettere a disposizione dei colleghi la sua terribile esperienza di servizio, che ha poi fatto da presupposto esperenziale alla sua  attuale “mission” di Pari della Polizia di Stato. Ovviamente, per la riservatezza che è obbligo in questi casi, abbiamo eliminato qualunque riferimento contestuale a fatti, luoghi e persone.

«Ore 18.25  del 5 febbraio 2000. Io e Daniele siamo di pattuglia nella zona delle biglietterie della stazione ferroviaria centrale quando, ad un certo punto, decidiamo di svolgere alcuni controlli su persone sospette che notiamo nella piazza antistante.
Vi è un gruppo di tre persone che bivacca davanti ad un chiosco, ci avviciniamo e chiediamo loro i documenti. Nel frattempo giunge un altro individuo ed anche lui viene sottoposto al controllo. Mentre Daniele si occupa di tre di loro, due uomini e una donna, osservando i loro atteggiamenti senza farli muovere più di tanto, io mi concentro su colui che immagino essere il più “interessante”: l’ultimo arrivato. Si chiama C.A., e dopo aver accertato tramite la Sala Operativa che ha un passato da pluriomicida (sette omicidi), che a suo carico ha numerosissimi altri precedenti penali e che gode del regime di semilibertà, approfondisco il controllo sottoponendolo alla perquisizione personale sul posto.
Il C.A. si mostra molto nervoso ed insofferente, manifestando più volte l’intenzione di girarsi dando le spalle a noi operatori di polizia. Ciò non gli viene permesso spiegandogli con modi garbati, ma fermi, che poiché sottoposto ad un controllo di polizia deve rispettare le regole che gli vengono imposte.
Dopo aver controllato nelle varie tasche dei pantaloni e del giubbotto, sotto la maglia, e nei calzini che indossa se vi celi qualcosa di illecito, gli domando perché, nonostante il freddo, continui a sudare. Egli risponde che non ha nulla da nasconderci e quindi, al mio invito, inizia ad aprire le tasche del marsupio che porta al seguito.
Nella prima tasca non vi è niente, nella seconda un pacchetto di gomme da masticare aperto, la terza tasca non vuole aprirla mostrando un attimo di esitazione. Torno a ripetergli la richiesta mentre nel frattempo gli altri tre individui osservano la scena senza muoversi come se già conoscessero il contenuto del marsupio ed un loro gesto potrebbe compromettere “qualcosa” (oggi direi che sembravano i clienti di una banca che viene assalita dai rapinatori).
A questo punto il C. si decide ad aprire la tasca, fa scorrere la zip e vi infila la mano dentro: improvvisamente la estrae dal marsupio impugnando una pistola e contemporaneamente urla: “ho questa”, puntandomela in faccia.
Io che pensavo a tutto, tranne al fatto che quel individuo potesse essere armato di pistola devo realizzare in un attimo, cancellando dalla mia mente tutte le ipotesi fatte circa il contenuto del marsupio e in che modo quindi procedere, come trovare una soluzione rapida per salvare la “pelle”. Avevo infatti presunto, come spesso succede, che lì dentro vi fosse della droga, un coltello, dei gioielli in similoro ma comunque nulla di così pericoloso.
Vistomi alle strette decido di afferrare la mano armata dell’uomo cercando di non farmi colpire al viso; nel frattempo egli, estremamente robusto, alto circa un 1 metro e novantacinque, molto forte fisicamente, riesce con l’altra mano a “scarrellare” per mettere un colpo in canna, e nel frattempo noto che un altro colpo salta fuori dalla pistola finendo a terra.

Preso dallo spavento e consapevole dell’imminente pericolo di vita cerco di reagire a tutti i costi, utilizzando una forza che non avevo mai pensato di possedere: riesco così ad abbassare la mano armata dell’uomo dopo di che odo un’esplosione e mi rendo conto di essere stato colpito all’emitorace sinistro.
A causa del forte dolore lascio la mano dell’aggressore indietreggiando di un passo: Daniele che mi vede in difficoltà si china in avanti, preparandosi ad un balzo sul corpo del malvivente. In questo frangente gli altri tre individui raccolgono da terra i loro documenti e quelli del C., documenti che avevo lasciato cadere per prepararmi a reagire con le mani libere, per poi dileguarsi tra le vie cittadine.
Il C.A. notando Daniele posizionato a reagire in mio soccorso gli punta la pistola esplodendogli quasi a bruciapelo un colpo che lo raggiunge all’altezza del torace, ferendolo gravemente. Mentre Daniele cade a terra mi urla di essere stato colpito al cuore. Io mi faccio forza e affronto di nuovo il malvivente afferrandolo al collo con l’intento di atterrarlo. Tale operazione però non va a buon fine in quanto il criminale con l’altra mano mi agguanta per il giubbotto della divisa e mi trascina a terra sopra di lui. Cadendo urto con violenza il viso sul pavimento di porfido della piazza provocandomi delle ferite alla testa, al naso ed alla bocca, con la conseguente rottura degli occhiali. A causa del colpo mi disoriento al punto di non capire più cosa mi sta accadendo; quindi il C.A. ha la possibilità di rotolarsi su di me, appoggiarmi la canna della pistola al petto ed esplodere un altro colpo di pistola che mi trapassa per poi fuoriuscire dietro la schiena.
Mi rendo conto del fatto che la vita mi sta abbandonando, ma non voglio accettare una fine simile: non si può smontare dal servizio dentro una bara! Così ormai allo stremo delle forze grido al criminale di non ammazzarmi urlandogli contro di farla finita ad accanirsi contro di noi. Egli invece si mette in ginocchio sopra di me, prende la mira e mentre io cerco di muovermi il più possibile per non farmi colpire nuovamente esplode a mo’ di esecuzione mafiosa un altro colpo che mi perfora nuovamente l’emitorace sinistro.
Il tempo sembra essersi fermato al punto che ho l’impressione di vivere quella terribile esperienza al rallentatore e quasi da spettatore. Comincio a vedere delle immagini dentro di me raffiguranti le cose belle della mia vita, le persone a me care, le situazioni di gioia che avevo condiviso con chi mi aveva dato un pizzico di felicità, i paesaggi a me cari, ripetendomi fra me e me: “Perché tutto questo, che ho fatto di male, la mia vita non può finire così”.
Ad un tratto ritorno nella realtà e noto le scarpe del criminale, marroni tipo Timberland con il carro-armato: è in piedi vicino alla mia testa, si è girato verso la zona opposta della piazza e con passo veloce si sta allontanano. Trascorsi alcuni secondi esplode verso di noi un altro colpo e ricomincia la fuga per poi barricarsi in un hotel con tre ostaggi…
Dopo che il delinquente si è allontanato odo degli attimi di estremo silenzio che mi sono utili per rendermi conto dell’evento che abbiamo appena finito di vivere, dopo di che la mia attenzione va subito verso Daniele che giace a terra a circa due metri da me. Tra me e lui vi è la radio portatile che prima portavo appesa alla spalla e che nella colluttazione mi si è sganciata finendo a terra. Cerco di raggiungere Daniele però non riesco ad alzarmi: quindi con la forza delle braccia mi trascino verso di lui raccogliendo intanto la ricetrasmittente. Dopo averlo raggiunto noto che è cosciente ma ferito gravemente al petto: quindi con la forza della disperazione riesco a mettermi in piedi e con la radio chiamo i soccorsi. Appena fatto ciò mi inginocchio vicino a lui cercando di tranquillizzarlo visto che è molto agitato perché non riesce a respirare.
Poco dopo giungono i colleghi della nostra squadra che vedendoci ridotti in quelle condizioni hanno un attimo di smarrimento: non sanno più cosa fare, due della loro “famiglia” sono stati feriti gravemente, è la prima volta che tutti noi ci troviamo a vivere una situazione del genere, da “protagonisti”, la prima volta che ci troviamo irrimediabilmente sconfitti. Fino ad ora siamo riusciti a fronteggiare qualsiasi tipo di intervento (rissa, rapina, aggressione, scippo ed altro) uscendone vincitori al fine di riportare l’ordine in città, dando ognuno di noi il massimo e lavorando in gruppo. La nostra forza è sempre consistita nel lavoro di gruppo, collaborando con il collega-fratello, coordinandoci a vicenda senza sbagliare di una virgola, perché i nostri interventi di routine consistevano in altro, non era mai accaduta una simile disgrazia… il poliziotto soccorritore che si trova in difficoltà rimanendo ferito e necessita lui di essere soccorso.
Sono stati colpiti due della squadra, tutti abbiamo toccato con mano il vero pericolo di questo mestiere che di solito capita di leggere sui giornali, vederlo in televisione nei film, pensando che non può mai succedere a uno di noi, perché ci sentiamo quasi al di sopra di certi pericoli, in grado di fronteggiare qualsiasi tipo di problema.
Il momento che mi è rimasto più impresso è stato quando il nostro capo turno Enrico è giunto con gli altri colleghi in piazza e, vedendoci entrambi a terra feriti, mi si è avvicinato, mi ha stretto la mano e mi ha bagnato la divisa con le lacrime. Non è riuscito a parlare ma con gli occhi e il cuore mi ha detto cose che con le parole non sarebbe mai riuscito a trasmettermi nessuno.
In questi attimi di concitazione osservo tutti i miei colleghi presenti: alcuni hanno l’istinto di correre in direzione del fuggitivo per vendicarci, altri cercano di far allontanare la folla per facilitare l’arrivo delle autoambulanze, altri con sguardo smarrito cercano qualcosa da fare per rendersi utili, ma continuano a giraci intorno come sotto ipnosi, quasi imbambolati.
Dopo essere giunti in ospedale tanti colleghi del nostro ufficio sono rimasti con noi fino a tardi per confortarci, aiutarci a superare il trauma subito temendo che se ci avessero lasciati soli avremmo sofferto ulteriormente: quindi ognuno si è reso utile anche con la sola presenza fisica, sono stati con noi, hanno condiviso il nostro dolore, probabilmente anch’essi desiderosi di rimanere in gruppo perché isolandosi avrebbero sofferto molto di più.
Di questo spiacevole evento ho tatuati nella mia mente alcuni inconfondibili ricordi: l’odore della polvere da sparo; il rosso della fiammata dell’esplosione dei colpi di pistola; il rantolo che emetteva il C. mentre tentava di eliminarmi; l’odore della sua pelle; i suoi occhi senza alcuna espressione: sembrava quasi che fosse in trance ipnotica; i particolari del suo marsupio; le guanciole della pistola che impugnava; il rumore delle sue scarpe che strusciavano sul pavimento; il sudicio che albergava sotto le sue unghia; il cappellino di lana che calzava sulla testa; i suoi occhiali da vista stile anni ’70.
Oltre ciò non dimenticherò mai la scena presentatasi ai miei occhi qualche istante dopo quella tragedia: eravamo entrambi feriti senza la possibilità di reagire a qualsiasi tentativo di sciacallaggio, non vi era nessun poliziotto nelle vicinanze, ma solo avanzi di galera, barboni, tossici e balordi di ogni genere. Avevamo bisogno di aiuto, ci serviva la mano di qualcuno che non volesse approfittare della nostra fragilità e proprio in quel frangente notavamo avvicinarsi loro, i disadattati di ogni genere che avevamo arrestato e denunciato quando avevano commesso dei reati, ed aiutato quando erano affamati, infreddoliti o desiderosi di sfogare i loro problemi personali con una figura amica.
In piazza non vi erano i soliti passanti curiosi che a costo di “godersi lo spettacolo” diventano un intralcio per gli addetti ai lavori fregandosene se un operatore di polizia cerca di allontanarli, perché non si è al cinema e non è bello divertirsi con i problemi altrui. Quella gente lì non c’era, era fuggita perché udire l’esplosione dei colpi d’arma da fuoco aveva fatto loro dimenticare di essere schiavi della curiosità.
Eravamo soli e vedevamo quei ragazzi disadattati che si avvicinavano non per approfittare della nostra fragilità ma per darci soccorso. Un travestito si è seduto a terra, ha preso la testa di Daniele e se l’è appoggiata sulle gambe, carezzandogli i capelli cercava di diminuirgli il dolore che stava sentendo; un marocchino già da noi precedentemente arrestato per borseggio  si è inginocchiato su di lui, gli ha slacciato il cinturone e me lo ha affidato, dopo di che è tornato da Daniele e sporcandosi con il sangue di lui poliziotto ha cercato di tamponargli la ferita al petto con la mano; una ragazza tossicodipendente piangendo cercava di attirare l’attenzione degli altri disadattati che stavano arrivando alla spicciolata con frasi del tipo: “aiutateci, correte, hanno sparato ad occhialino e suo fratello”. Udite queste frasi i ragazzi ci hanno raggiunto, si sono messi in cerchio intorno a noi e si sono spostati solo quando sono arrivate le pattuglie della nostra squadra perché temevano per la nostra incolumità.

Mentre ero nella mia camera d’ospedale sono stato informato dai colleghi che ci assistevano h24 che un gruppo di quindici, venti “tossici” era giunto al reparto di chirurgia con l’intento di farci visita, ma ciò non gli era stato permesso per ovvi motivi.
L’esperienza vissuta con Daniele mi ha fatto rendere conto del fatto che il nostro lavoro, quando subentra la routine, ci porta a sottovalutare il pericolo, che a volte ci convinciamo quasi di essere onnipotenti, che nulla ci può nuocere al punto di toglierci la vita, ma che basta un attimo per vedere in frantumi ciò che si è costruito con enorme sacrificio.
Passato questo triste momento mi sono accorto sempre di più di essere attaccato alla vita, di sentire il profumo dei fiori a cui fino ad allora non avevo dato importanza, di riuscire a godere ed essere appagato delle piccole soddisfazioni che la vita giornalmente ci propone, del vero significato della parola amore, della voglia di costruire e, soprattutto, di essere rinato con una marcia in più».

Luigi Lucchetti, presidente on. di AIGESFOS-APS
Felix B. Lecce, presidente di AIGESFOS-APS